Guida alla Basilica

La Chiesa

Chi arriva all’Osservanza, ha certo già colto dalle strade di accesso l’impressione visiva generale del monumento. E’ comunque consigliabile, come inizio della visita, anche un’attenta osservazione dell’esterno della chiesa... 

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Esterno

La facciata è sovrastata dal triangolo del timpano i cui lati sono evidenziati da cornici in forte rilievo: sotto l’ultima linea della cornice corre la lunga teoria di mensole che poggiano a loro volta su una fascia a dentelli. Questo tipo di fregio è una costante dell’edificio: osservando il fianco sulla sinistra della facciata, ben si vede come corra anche sul retro e lungo i fianchi, sotto gli spioventi, evidenziando l’aggetto delle paraste laterali (che interrompono la fiancata) e il profilo della porzione di tetto che si inserisce a metà fiancata a copertura delle cappelle della navata. Si tratta di un ornamento classico ben attestato nell’architettura rinascimentale e costituisce, insieme al particolare del timpano triangolare, un ricordo della trabeazione dei templi antichi. Senz’altro originario l’inserimento nella facciata del monogramma del Nome di Gesù in mezzo al triangolo, che simbolicamente richiama la centralità del finestrone rotondo in mezzo al regolare quadrato sottostante, mentre i due stemmi bianconeri della balzana del comune senese sulle paraste frontali che chiudono ai lati il quadrato danno l’idea del sostegno civico alla spiritualità rappresentata dalla perfezione geometrica. Alla base, come accesso alla chiesa e al convento, un semplice loggiato (elemento tipico di chiese di conventi francescani) con tetto a travi lignee in vista sorrette da colonne in mattoni che terminano in alto con una leggera apertura, quasi un semplice capitello. Sotto il loggiato, tra le lapidi inserite nella facciata, si segnalano quella commemorante la dedica della prima chiesa a S.Bernardino nel 1451 e la consacrazione dello spiazzo dinanzi alla chiesa alle sepolture, quella che ricorda una elargizione di Papa Alessandro VII, sovrastata dallo stemma papale della famiglia Chigi, cui il pontefice apparteneva, quella dedicata alla visita di Pio VI nel 1798 e una lastra sepolcrale del 1605 con il quasi abraso stemma dei Piccolomini. Il loggiato nella forma attuale fu ripristinato nei restauri degli anni 1921-31, quando venne tolta la complessa costruzione settecentesca a tre arcate che aveva compromesso l’aspetto originale. In quel restauro fu ridata la forma attuale ed originale al lato sinistro del loggiato (l’antica cappella Ballati, prima ospitante un affresco ora staccato, vedi sotto) che dà accesso al piazzale panoramico sul lato est.

Sulla copertura del presbiterio si erge la cupola, formata da un basso tamburo (la base cilindrica su cui poggia la cupola) che è separata da una cornice con dentelli (il consueto ornamento) dal tiburio (il rivestimento cilindrico dell’estradosso della cupola), che a sua volta termina, tramite la solita cornice con dentellatura, in un tetto a leggero spiovente circolare sovrastato da una lanterna. Si tratta di un elemento architettonico così ben attestato nel cinquecento da poter essere considerato anche nel nostro caso originario. Posteriore è invece l’attuale forma del possente campanile, escogitata nel rifacimento tardosecentesco dell’Osservanza, per ben addossarsi al tiburio e per ospitare quattro grosse campane, che nel corso del settecento furono fuse anche sfruttando il bronzo di quelle precedenti del 1478. 


L’interno della chiesa

L’interno è ispirato alla sobrietà di un’architettura rinascimentale ispirata dal rispetto della spiritualità francescana. La pianta prevede una sola ampia navata, con quattro cappelle per ogni lato, divisa in due campate da un primo arco e terminante in un arco trionfale che la divide dal presbiterio quadrangolare, completato a sua volta dalla sola cappella dell’altar maggiore. Le campate della navata sono coperte da volte a vela con calotta e pennacchi, così come il presbiterio, la cui volta sorregge la cupola. Le cappelle laterali e quella dell’altar maggiore hanno volta a botte.

La ricostruzione dopo il bombardamento del 1944 restituì l’aspetto a sua volta ripristinato negli anni venti. In quel ripristino, come già accennato, furono eliminate interamente le decorazioni settecentesche, consistenti soprattutto in un esteso apparato di stucchi corrente lungo le delimitazioni degli elementi della struttura architettonica. Quelle stesse linee (archi delle cappelle laterali, arco mediano della navata e arco trionfale e della cappella dell’altar maggiore, linee delle vele del soffitto e tra tamburo e cupola sul presbiterio) appaiono ora, come nel cinquecento, evidenziati dal modesto ornamento costituito dalla coloritura in grigio degli spigoli d’intonaco e delle semplici cornici in lievissimo aggetto. Una spartitura estesa a tutto quanto l’interno è ottenuta al di sopra delle arcate laterali tramite un fregio continuo, in tonalità grigia, di cherubini e motivi floreali, che sembra invitare alla visione del soffitto come di una zona separata dall’area delle funzioni cultuali. Il gioco delle sottili circonferenze grigie e dei loro punti di tangenza che individuano i pennacchi in cui sono incastonati i tondi di gesso con figure di santi, offrono l’idea della trascendenza tramite il senso di infinito che suggerisce la figura del cerchio. Dal piano della cripta (con la sua simbologia ispirata al mistero della morte) si è dunque passati al piano della preghiera e dell’arte dell’uomo (navata e cappelle) per ascendere con lo sguardo alla perfezione dei cerchi come simbologia celeste.

Ai lati dell’entrata sono stati sistemati due medaglioni* in terracotta invetriata di Andrea della Robbia con le immagini di santi francescani, San Bonaventura e San Ludovico di Tolosa, ricostruiti dai frammenti in cui li aveva ridotti il bombardamento; le due effigi facevano parte del ciclo dei Santi che ornava il soffitto, trovandosi al centro delle calotte che sovrastano le campate della navata. I tondi in gesso dalla policromia di pochi toni e con il gioco prospettico interno sono moderne ricostruzioni di analoghe immagini perdute durante l’ultima guerra. Nella prima campata quattro santi francescani (San Bernardino, Sant’Antonio da Padova, Santa Chiara e Santa Elisabetta d’Ungheria) e al centro copia del San Bonaventura; nella seconda quattro santi Dottori della Chiesa (i Padri della Chiesa Latina, Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Girolamo e San Gregorio Magno) e al centro copia del San Ludovico; nell’arco trionfale San Francesco; nei pennacchi della cupola sul presbiterio gli Evangelisti; nell’arco del presbiterio un Cristo in pietà che ricorda la posizione di quello del Cozzarelli nell’arco trionfale della Chiesa dei Servi.

Sui piedritti dell’arco trionfale, entro due nicchie di imitazione quattrocentesca, i due originali in terracotta invetriata, restaurati dopo il bombardamento, dell’Angelo Annunciante e della Vergine Annunziata* di Andrea della Robbia, concepiti come statue angolari dell’altar maggiore ai lati del quale erano in origine disposte. Anche l’attuale disposizione rispetta comunque la funzione simbolico-rituale del gruppo: tra la Vergine e l’Angelo, nelle tavole dipinte, si trovava di norma un simbolo cristologico a rappresentare il Frutto dell’incarnazione; quando si tratta di statue ai lati dell’altare il simbolo del Verbo incarnato è costituito dal rito che si compie sull’altare che discende dall’incarnazione stessa, così come nel nostro caso ciò che l’Angelo annuncia è quanto si compie entro l’arcata trionfale che si apre sul presbiterio come luogo del sacrificio.

Il presbiterio è circondato da un coro ligneo eseguito in stile neorinascimentale dopo la ricostruzione seguita al bombardamento, cui si riferisce la scritta che corre nella parte alta. L’antico coro cinquecentesco del Barili era già stato rimosso nel settecento. Sull’altar maggiore si trova attualmente un crocifisso di recente costruzione. Il bombardamento del 1944 distrusse il crocifisso che vi si trovava dalla fine dell’ottocento (in sostituzione di quello che doveva essere un pessimo gruppo marmoreo barocco, che aveva preso il posto di altre sistemazioni successive alla disgraziata perdita della pala del Sassetta). Il crocifisso distrutto dalle bombe si rivelò un’opera di grande valore e antichità, recuperata da altra sistemazione nel convento, che potè essere attribuita a Lando di Pietro solo in seguito alla sua distruzione (vedi il paragrafo sul museo, in cui si conserva un importante frammento della testa di Cristo). 

Nella cappella dell’altar maggiore è stato traslato negli anni settanta l’affresco* prima attribuito al Riccio e datato a circa il 1530, poi assegnato alla paternità di Pietro di Francesco Orioli e pertanto datato a circa il 1490 e originariamente situato nella parete, ora di intonaco bianco, della cappella Ballati alla sinistra del portico esterno. Il dipinto, in non buone condizioni, rappresenta la Madonna col Bambino tra i Santi Giovanni Battista e Girolamo (medaglioni con Evangelisti sul basamento del trono) e si trova sulla parete absidale destra. Sulla parete opposta è stata fissata la sinopia venuta alla luce durante la rimozione dalla primitiva sede.

Nel 1995 un concerto del M° P:Alessandro Santini, del Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma, inaugurava l'organo che chiude con le sue canne la cappella e il colpo d'occhio sul presbiterio. E' un organi semimultiplo elettrico, della Ditta Mascioni di Cuvio (Varese), con tre manuali e pedaliera concava a ventaglio; ha 48 registri per un complessivo canne n. 2014.

Le Cappelle laterali

(La denominazione delle Cappelle e la loro dedica da parte dei benefattori, fu in origine concorde con le opere d’arte sistemate in ognuna. Tale coincidenza fu interrotta una prima volta nel XVII secolo, al tempo della trasformazione in senso barocco dell’interno della basilica. Nel settecento furono imposte a molti degli altari laterali tele del periodo. La maggior parte dei tesori che ora si ostendono dipendono invece dal redintegro, datato al 1822, di quanto perduto con la soppressione napoleonica del 1810).

Prima a destra di chi entra

Dedicata a S.Antonio da Padova (statua del Santo in legno policromo del 1668). Sulla parete di destra si nota l’apertura dell’antica porta del convento. Sull’altare, affresco* staccato con Crocifisso, gruppo dell’Addolorata e i Santi Nicola di Bari (libro e globi d’oro, in ricordo del dono con cui salvò dalla prostituzione tre fanciulle povere), Francesco (Stimmate), Bernardino (tavoletta con nome di Gesù), Giovanni Evangelista (rappresentato fanciullo), Maria Maddalena (che abbraccia la Croce), Antonio da Padova (cuore in mano). L’affresco proviene dalla cappellina della Madonnina Rossa (vedi introduzione storica). Ne fu staccato, già in condizioni di deterioramento, nel 1933 e prima traslato nella Pinacoteca di Siena, dove rimase fino al 1961. Si attribuisce a Girolamo Magagni, detto Giomo del Sodoma o a Bartolomeo Neroni detto il Riccio (ambedue continuatori del Sodoma), in considerazione di un documentato affidamento dell’affrescatura della cappellina prima all’uno e poi all’altro pittore negli anni 1548-49. Degno di nota lo svenimento della Vergine tra le due pie donne, drammaticamente rappresentato: evidente il riferimento di maniera all’estasi di Santa Caterina nell’affresco del Sodoma in San Domenico.

Seconda a destra.

Dedicata all’Addolorata. Sull’altare, gruppo in terracotta policroma in pochi toni che rappresenta il compianto sul Corpo di Cristo, con la Vergine Addolorata e, dietro di Lei, Sant’Anna e i Santi Giovanni Battista (in piedi a sinistra), Francesco (in piedi a destra), Giovanni Evangelista (sorreggente la testa del Cristo) e Maria Maddalena (inginocchiata ai piedi del Cristo). La raffigurazione di Sant’Anna segue il tipo della “Metterza” (messa per terza dopo Gesù e la Madonna) in genere adoperato per la Madonna col Bambino. Il gruppo è attribuito (per via documentaria indiretta) ad un Giovanni di Paolo Neri (non altrimenti noto e da non confondere con il celebre Giovanni di Paolo) e datato correttamente nel XVI sec., una volta tolta di mezzo l’errata attribuzione (dovuta agli eliminati ornamenti barocchi) al secentesco Gonnelli di Gambassi.

Terza a destra

Dedicata alla spoliazione di Cristo. Sull’altare, Sano di Pietro, Trittico** (dopo la metà del ‘400) con Madonna col Bambino e i Santi Girolamo e Bernardino. L’atteggiamento di Gesù, che rivolge lo sguardo a S.Girolamo scrivente, sembra interpretabile come mistico compiacimento per l’unione tra la povera ma potente predicazione bernardiniana (il volto emaciato ma teso del Santo e la tavoletta che ostende) e la vocazione penitenziale e scritturale di S.Girolamo, con probabile celebrazione degli stretti rapporti intercorrenti tra i frati dell’Osservanza e la Compagnia di S.Girolamo del S.Maria della Scala. Tale Compagnia, che derivava i suoi statuti da quella fiorentina di San Girolamo del Ceppo, era stata fondata nel 1428 anche secondo le intenzioni dell’allora guardiano della Capriola, fra Giovanni della Marca. Fin dagli inizi della Regolare Osservanza, a San Girolamo vennero dedicati eremi e luoghi devoti dell’Ordine, e ricevettero ampia divulgazione i suoi scritti ascetici, ritenuti consoni alla riforma dell’Ordine. Degno di nota il particolare del cardellino tenuto dal Bambino nella mano sinistra, simbolo preannunciante la passione di Cristo, per il rosso della testolina, che, secondo una leggenda eziologica, sarebbe rimasto nel piumaggio dell’uccellino per via di una goccia del sangue di Cristo, allorchè l’umile volatile tolse al Crocifisso una delle spine della corona. Sopra gli archi del trittico, in due tondi, l’Annunciazione. Nella predella, Santa Chiara, San Francesco, San Pietro, la Vergine, il Cristo in pietà, San Giovanni Evangelista, San Giacomo, San Cristoforo, Santa Elisabetta d’Ungheria. Sulla parete a destra dell’altare, una tavola* oblunga attribuita a Girolamo di Benvenuto (fine sec. XV) raffigurante Santa Elisabetta d’Ungheria: la corona sul pavimento ricorda le origini regali della santa, che, rimasta vedova, fu una delle prime terziarie francescane nel XIII secolo; signora di Marburg, si prodigò per i poveri e ricevette dopo la morte una costante venerazione nella Turingia; la figurina della devota ai suoi piedi (raffigurata più piccola come era uso per i devoti accanto ai santi che venerano) richiama la leggenda agiografica della viandante (si notino bastone, bisaccia, borraccia e cappello) il pane donato alla quale si trasforma nei fiori che regge in mano la santa. Sulla sinistra dell’altare, altra tavola**, opera di Pietro di Giovanni d’Ambrogio, raffigurante San Bernardino. La corretta datazione è riportata dalla scritta sul margine inferiore della tavola (1444) erroneamente copiata ai piedi del Santo in vernice nera. Si tratta di una delle immagini bernardiniane dipinte immediatamente dopo la morte, quando la precoce fama di santità attribuita all’Albizzeschi dalla venerazione popolare rendeva tollerabile l’uso dell’aureola ancor prima della canonizzazione. Trattandosi dunque di un archetipo per l’iconografia del Santo, vanno osservati la magrezza del volto, sottolineata dalla evidenziata rugosità, il Nome di Gesù, rappresentato immaterialmente (senza il ricorso alla tavoletta delle prediche) e infine la pagina scritturale retta nella mano sinistra (S.Paolo ai Colonnesi, 3, 2), per poter confrontare tali particolari con le loro successive trasformazioni. 

Quarta a destra.

Il trittico ha per soggetto l'Incoronazione di Maria Vergine da parte di Cristo. Assistono alla scena vari santi, fra cui distinguiamo, a sinistra, san Francesco d'Assisi e san Girolamo, e, a destra, san Bernardino da Siena e sant'Agostino. Nelle cimase il pittore ha raffigurato anche una Annunciazione con i profeti Isaia e Geremia. Realizzato, secondo la consuetudine del secolo, con la tecnica della tavola, il dipinto misura cm 197 in altezza e 236 cm in larghezza. Autore dell'opera è Sano di Pietro a cui viene attribuito dalla Bibliografia. Il trittico è stato realizzato fra il 1450 e il 1460.   Agostino, raffigurato a destra, è inginocchiato di fronte alla Vergine con un libro aperto fra le mani. Nella mano destra il santo impugna una penna a simboleggiare la sua grande produzione letteraria a difesa della Chiesa

Quarta a sinistra

Dedicata alla Natività del Signore. Sull’altare, polittico ** con Santi di Andrea di Bartolo, datato nel cartiglio ai piedi del Battista al 1413. Nello stesso cartiglio, si specifica la provenienza dal distrutto convento delle Francescane di Santa Petronilla (già convento degli Umiliati, che si trovava nell’attuale vicolo degli Umiliati, in via Garibaldi). Nei pannelli, San Giovanni Battista, San Francesco, San Pietro, San Giovanni Evangelista; nelle cuspidi, San Giacomo, Santa Chiara, un santo diacono e San Paolo. Le figure dei santi nel registro inferiore sottolineano il loro carattere slanciato anche con la verticalità delle pieghe del panneggio: il nostro sguardo viene così subito diretto verso i volti severi e verso le mezze figure del registro superiore. I quattro pannelli, letti in successione, sembrano alludere alla vita eremitica, all’apostolato francescano, al diaconato, alla manifestazione del Verbo. Il polittico è formato probabilmente dalle due ali laterali di una composizione più grande con al centro una perduta Madonna con Bambino.

Terza a sinistra

Dedicata all’adorazione dei Magi. Sull’altare, tavola* dipinta ad olio con Crocifissione e Santi di Bartolomeo Neroni detto il Riccio. Si sono proposte datazioni dal 1535 al 1568. La tavola si trovava in origine nella cappella Pieri demolita nel 1689 (vedi introduzione storica). In piedi ai lati del Crocifisso, la Vergine e San Giovanni Evangelista; inginocchiati, Maria Maddalena (abbraccia la Croce), San Giovanni Battista e San Girolamo, qui in aspetto di penitente. Il quadro trae efficacia e movimento dalla manifestazione del mistero sottolineata dalle diverse posizioni delle mani degli astanti; degno di nota il paesaggio con città che fa da sfondo alla scena sacra.

Seconda a sinistra

Dedicata all’Assunzione di Maria. Sull’altare, dossale* in terracotta invetriata policroma, con Incoronazione della Vergine e Santi, attribuito a Andrea della Robbia e datato al penultimo decennio del XV secolo. Non ovvia l’identificazione dei Santi: a partire da sinistra, San Girolamo (in abiti da penitente con pietra in mano a ricordo dell’eremitaggio nel deserto), Sant’Antonio da Padova (cuore in mano), una Santa martire (palma) forse da riconoscersi come Agnese, San Francesco (ma senza le Stimmate). La figura inginocchiata, secondo le convenzioni del periodo, potrebbe essere la committente del dossale, forse Agnese Ugurgieri (appartenente alla famiglia patrona della cappella), vedova di Agostino Borghesi (la tomba della nobildonna è visibile nella cripta). La scena mistica è circondata da angeli musici e testine di cherubini, che aggiungono alla spiritualità del mistero un efficace movimento, come di rado avviene in tali terrecotte. Tra la Vergine e Gesù, Spirito Santo in forma di colomba. Nella predella, Annunciazione, Assunzione e Natività. Nel timpano, serafini e monogramma bernardiniano. Anche a prima vista, si notano alcune parti restaurate dopo il bombardamento, che irrimediabilmente distrusse il tondo affrescato sulla volta della cappella, con immagine di Santa Agnese: se ne attribuì la paternità prima a Guidoccio Cozzarelli, poi a Neroccio di Bartolomeo Landi (ne è conservata una foto nella Frick Art Library di New York).

Prima a sinistra

Dedicata a San Bernardino, poi all’Immacolata Concezione. Sull’altare, tavola** con Madonna con Bambino e angeli, dipinta da Sano di Pietro, verso l’anno 1455. Il Bambino ha nella mano destra un frutto: dovrebbe trattarsi di una mela, simbolo della vittoria che con la Passione di Cristo si avrà sul peccato originale, o di una melagrana, simbolo in tal caso più complesso, poiché richiama la Passione per il rosso succo dei suoi semi, l’unità della Chiesa, per i molti semi raccolti nel frutto, la misericordia, in quanto antico simbolo dell’abbonadnza, la Resurrezione, come derivazione del dono fatto nella mitologia da Ade a Proserpina destinata a risalire dal regno dei morti in quello dei vivi. Dietro al trono della Vergine, quattro angeli contemplanti. Probabilmente la tavola proviene da una più ampia composizione.

Cripta

Le numerose lapidi sepolcrali nel pavimento, il Giudizio finale affrescato sul fondo e la particolare luce che si diffonde sui mattoni rossastri senza che siano visibili all’entrata i fornici dei finestroni da cui penetra, dovevano conferire una connotazione ambientale inequivocabilmente evocante il mistero della morte e dell’oltretomba...

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Scendendo dal lato est, per l’apertura al termine del loggiato, si giunge ad un livello del terreno che dà accesso, per una porta laterale, alla cripta cemeteriale. Si entra prima in un vestibolo, che immette, dal lato opposto all’entrata, al sepolcreto dei Petrucci e sulla destra, con la discesa di alcuni scalini, al vasto ambiente caratterizzato dalle volte ampie e basse, a botte lunettata, in laterizi, terminanti con finestroni profondi sul lato destro. Sul pavimento, tombe di illustri personalità (vedi appendice). Sulla parete di fondo, dietro all’attuale altare moderno in travertino, si trovava in origine l’affresco del giudizio finale di Girolamo di Benvenuto, staccato nel 1910 ed ora situato nella parete di fondo del museo conventuale. L’orientamento della cripta è inverso rispetto alla navata soprastante della chiesa.


IL Convento

Si accede al convento attraverso la grande porta di legno destra del portico davanti alla Chiesa. Dal primo vestibolo si accede al chiostro centrale del XVII secolo, alla zona nord del chiostro cinquecentesco (sulla destra) oppure (a sinistra) al lungo corridoio, ora detto di San Bernardino, che conduce alla Sagrestia e alla loggia di Pandolfo


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Dal primo vestibolo si accede al chiostro centrale del XVII secolo, alla zona nord del chiostro cinquecentesco(sulla destra) oppure (a sinistra) al lungo corridoio, ora detto di San Bernardino, che conduce alla Sagrestia e alla loggia di Pandolfo. Il corridoio costeggia gran parte della lunghezza del grande chiostro centrale (a destra, visibile dai finestroni) e a sinistra corre lungo la parete esterna della navata laterale destra della chiesa: su questo lato, dalle aperture a livello del pavimento, è visibile la cripta. Il corridoio fu aperto durante la ristrutturazione del XVII secolo: per apprezzarne la validità architettonica, deve essere osservato dalla crociera che forma verso la fine, offrendo un buon impatto visivo nel punto cruciale della nuova disposizione secentesca del complesso conventuale. Da questo punto si accede infatti alla parte più interna del convento (a destra, tramite la loggia di Pandolfo), alla Sagrestia (in avanti), al Presbiterio della Chiesa (a sinistra). Ci troviamo già nella zona dell’aggiunta cozzarelliana, che tra breve esamineremo. Prima occorre descrivere l’ambiente che si apre dopo la metà del corridoio.

L’Oratorio di San Bernardino

Com’è noto, l’originale nucleo bernardiniano fu vittima della ristrutturazione secentesca del convento. In quel secolo, si trovava nel piano superiore del convento anche la cella di San Bernardino, che fu traslata nella cripta, per rimanervi fino al 1939, quando fu individuata l’attuale posizione. Si tratta di una ricostruzione del luogo venerando che ospitò il Santo nei periodi trascorsi alla Capriola, attuata con alcuni materiali originari (come la piccola porta d’ingresso) e corredata di opere d’arte e reliquie. Si entra nel primo vano, dove si conservano la tonaca da viaggio, altri indumenti e panni che il Santo indossava al momento della morte nella città dell’Aquila, qui riportate subito dopo il trapasso: insieme all’abito e alla tavoletta con il monogramma, datata al 1425 e verosimilmente usata in ostensione dal Santo nelle celebrazioni del Nome di Gesù risalenti a quell’anno (custoditi nel secondo vano, la cella), uniscono al carattere venerando anche un’importanza di testimonianza storica. Altrettanta rilevanza assumono gli autografi conservati nella teca del primo vano, in particolare la lettera di San Giacomo della Marca (vedi introduzione storica). Sulla parete di fondo del primo vano, è da notare la terracotta raffigurante San Bernardino in dolente contemplazione, attribuita prima ad Urbano da Cortona, poi ad epoca più tarda e probabile copia dell’originale terracotta cozzarelliana che avrebbe completato dal lato opposto al San Giovanni il Compianto nella Sagrestia (vedi sotto): non pare altrimenti spiegabile l’atteggiamento del Santo e il taglio della statua. Sull’altare della cella, il busto del Santo*, proveniente dalla facciata della Chiesa, attribuito a Lorenzo di Pietro, detto il Vecchietta. 

La Sagrestia

Dal corridoio, procedendo oltre la crociera, si accede alla Sagrestia. Si tratta di uno degli ambienti più significativi dell’aggiunta cozzarelliana commissionata da Pandolfo Petrucci. La porta della Sagrestia è originale e mostra particolarissime maniglie, a forma di due delfini contrapposti, in allusione al nome stesso di Pandolfo. Sopra l’architrave compare lo stemma di famiglia dei Petrucci. Si entra in un ambiente di eccezionale sobrietà, dove il segno della committenza è frequente quanto discretamente inserito nei peducci delle volte a vela del soffitto e al centro del soffitto stesso. Come se la potenza del Magnifico, senza ostentare eccessiva presenza nel convento dei Frati Minori, ne garantisse simbolicamente i reggimenti e i cardini della struttura. Medesima simbologia del potere fu adoperata dal Cozzarelli nella distribuzione degli stemmi nel palazzo detto del Magnifico in via dei Pellegrini a Siena, in parallelo con la discreta allusione al reggimento della città negli anelli in bronzo della facciata di quel palazzo. Mentre però gli stemmi negli architravi del convento e nel palazzo cittadino sono in pietra monocroma, quelli del soffitto della sagrestia sono bicromi, con elegante avvicinamento di azzurro e oro, separati dalla dentatura obliqua. In sobrio stile primo-rinascimentale anche l’arredo in legno alle pareti, originale intaglio di Antonio di Neri Barili (l’artigiano della libreria Piccolomini nel Duomo) risalente al 1497 e restaurato dopo la guerra. Su tutto l’arredo ligneo corre un’epigrafe: PANDVLPHVS PET. HEC CVM OMNIBUS ORNAMENTIS SACRARIA DICAVIT CVIVS IN HOS SACERDOTES LIBERALITATEM SI PIVS ES O DIVES IMITERIS. AN MCCCCLXXXXVII. (Pandolfo Petrucci ha dedicato questo luogo santo con tutti i suoi ornamenti: tu che sei ricco, se rispetti anche il sacro, imiterai la sua generosità verso questi padri; anno 1497).

Nella parete di fondo, sull’altare, entro una esedra semicircolare, con  catino e paraste decorate con motivi a candelabri, racemi e cherubini, l’eccezionale gruppo** in terracotta policromata con il Compianto sul Corpo di Cristo, attribuito con sicurezza (per lo stile e per via documentaria) a Iacopo Cozzarelli, l’architetto autore della parte del convento che stiamo visitando. Il gruppo è composto dal corpo di Cristo, disteso in primo piano, dalla Vergine, chinata su di Lui; in secondo piano dalla coppia delle figure maschili a sinistra (Giuseppe d’Arimatea, che procurò il sepolcro e raccolse il sangue di Gesù e il discepolo Nicodemo che assistette al processo), dalla coppia delle figure femminili a destra (una Maria e la Maddalena; a sinistra è stata restituita alla posizione originaria la figura di San Giovanni Evangelista, che era stata allontanata dal gruppo nel corso dell’ottocento. Sulla destra, doveva trovar posto in origine la figura del San Bernardino in meditazione, una copia della quale abbiamo osservato nell’Oratorio. Al posto dell’intonaco bianco della nicchia, compariva fino agli anni cinquanta del novecento un affresco di sfondo al gruppo, con croce in primo piano alberi e città in lontananza, verosimilmente coevo alla terracotta. Il restauro dell’opera è avvenuto negli anni 1982-84 ed ha rimesso in perfetta evidenza l’alta qualità dell’esecuzione. Di alta scuola l’espressione individuale del dolore nei volti degli astanti, mentre l’efficace distribuzione delle figure testimonia la notevole maturità dell’artista, già evidente nella drammatica postura del corpo abbandonato di Cristo. L’intima scena del dolore materno è arricchita dalla riflessione dolorosa sul mistero della morte del Salvatore da parte delle due coppie retrostanti (ciascuna rivolta, nel proprio dolore, verso diverse parti) e completata dalla lateralità dei due Santi contemplanti: la presenza atemporale di Bernardino conferiva inoltre universalità al mistero rappresentato.

Sulla sinistra, si accede ad un ambiente, attualmente adibito alla custodia di paramenti ed oggetti di culto, ove è conservato un lavabo* in marmo di pregevole fattura, con vasca sorretta da piedritti e sormontata da una pila con cannelle. Degno di nota l’ornamento di festoni e frutti, con al centro lo stemma dei Petrucci. L’opera è attribuita a Iacopo Cozzarelli.

Dinanzi all’altare, sul pavimento, è incastonato nel pavimento un riquadro di marmo contornato da un’epigrafe formata dal seguente distico: VT SVA POSTERITAS SECVM REQUIESCERET URNAM HANC SIBI PANDULPHVS IVSSIT ET ESSE SVIS (Perché la sua discendenza riposasse con lui, Pandolfo dispose che questo fosse il sepolcro suo e per i suoi). Siamo infatti nel cuore del mausoleo pandolfiano, costituito dalla sagrestia e dagli ambienti sottostanti, attigui all’ingresso della cripta. Se guardiamo l’altare, la parete alla nostra destra separava in origine la sagrestia dal resto dell’addizione al convento ideata dal Cozzarelli e realizzata nei primi anni del cinquecento, ai tempi della potenza del Magnifico. Di là da quella parete prese allora corpo il portico pandolfiano che guardava verso la città. Il braccio orientale, chiuso ed inglobato nell’edificio nel XVIII secolo, coincide con l’attuale ambiente che corre al di là di quella parete della sagrestia: vi si accede dalla destra dell’altare ed ospita il museo dedicato ad Aurelio Castelli.

Il Museo conventuale “Aurelio Castelli”

Il museo del convento è dedicato al P.Aurelio Castelli, in ragione della fama di studioso e dei meriti avuti nel riconquistare l’autonomia del convento dopo l’ultimo esproprio ottocentesco. L’individuazione di questo ambiente come sede museale risale all’anno (1910) della traslazione dell’affresco di Girolamo di Benvenuto dalla cripta all’attuale posizione. Dieci anni dopo, si inaugura il museo, raccogliendo in questo luogo vari tesori provenienti dalla chiesa e dal convento. L’affresco è situato nella parete di fondo: presenta notevoli lacune e cadute e alterazioni del colore. Al centro l’arcangelo Michele regge spada e bilancia. Alla sua destra due figure di giusti sorgono dalle tombe per raggiungere il cielo; alla sinistra un reprobo esce dall’arca in atteggiamento di ormai vano pentimento mentre un altro già si avvia verso le caverne infernali. Al di sopra, due angeli annunciano il giudizio con le trombe. Nella più vasta abrasione trovava posto il Cristo giudice.

Al centro della sala, nelle teche, una eccezionale serie di codici e libri di coro membranacei, per i quali si rimanda all’appendice.

Osserviamo poi tra gli altri pezzi quelli degni di maggior nota.

In primo luogo, a sinistra dell’entrata, la testa di Crocifisso** di Lando di Pietro. Come già detto, il Crocifisso di Lando, presente sull’altar maggiore senza che se ne sospettasse l’autore né l’antichità, rimase quasi completamente distrutto nel bombardamento del 1944. Ne furono ritrovati tra le macerie due frammenti dalle gambe e vari dal volto che ne hanno consentito una parziale ricostruzione con l’originale policromia. Proprio dalla distruzione, venne alla luce la vera storia dell’eccezionale scultura lignea. Una piccola pergamena era stata nascosta dentro l’incavo del ginocchio e recava data e nome dell’autore, per raccomandare la sua anima a Cristo. Nell’incavo della testa era invece custodita una più ampia pergamena, con altra preghiera dell’autore e citazione del proprio nome e della data di esecuzione (1338), non senza il seguente ammonimento: fu compiuta questa figura a similitudine di yhesu xpo crocifisso figliolo di dio vivo et vero, et lui dovemo adorare et non questo legno. Si scoprì così, per questa via tanto singolare, l’unica scultura lignea conosciuta di Lando di Pietro, altrimenti ben noto come orafo (nel 1311 aveva eseguito la corona per l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, che, venuto in Italia per farsi incoronare tra il tripudio dei ghibellini e le speranze dello stesso Dante, morì invece in Buonconvento) e come architetto: sarà lui che nel 1339 (un anno prima della sua morte) inizierà la costruzione del Duomo nuovo di Siena, secondo il celebre, grandioso e mai realizzato progetto. Sopra alla parte recuperata della testa lignea, è visibile il calco in gesso predisposto dopo la guerra. 

Sulla sinistra della lunga parete opposta all’entrata, come testimonianza dell’inventiva del P.Castelli, il marchingegno per la determinazione del calendario perpetuo. Di seguito, di notevole interesse è la lastra tombale* di Niccolò Piccolomini (1467), arcivescovo di Benevento. L’opera, che si presenta levigata dall’attrito dei passanti, fu già attribuita al Vecchietta: oggi si preferisce l’anonimato dello scultore. La scultura si trovava come lastra pavimentale presso l’ingresso della chiesa.

Al termine delle teche dei codici, il reliquiario delle vesti di San Bernardino*. Costruito in rame, bronzo dorato e argento, reca ornamenti in smalto e qualche pietra incastonata. Negli incroci delle assi portanti i vetri, i simboli del comune senese (la balzana bianca e nera, la scritta libertas, il leone in campo rosso, la lupa con i gemelli della leggenda della fondazione, Ascanio e Senio, figli di Remo); tra stemmi e pietre, decorazione con motivi floreali. Nella parte superiore, due angeli recano il Nome di Gesù negli spicchi più ampi; il Santo a mezzo busto ostende la tavola in quelli più piccoli. Questa parte dell’oggetto fu eseguita negli anni 1454-1462, su commissione del concistoro senese, dall’orafo Francesco d’Antonio, ed è considerata mediana tra il suo reliquiario del Sacro Chiodo per il S.Maria della Scala e quello del braccio di S.Giovanni all’Opera del Duomo. L’opera era stata  commissionata dal comune senese al celebre Giovanni di Turino (l’orafo che lavora alle formelle del fonte battesimale insieme a Donatello e Iacopo della Quercia), che non potè eseguirla, fin dal 1446 (l’Albizzeschi era morto nel 1444) quando evidentemente già si venerava la sua fama, ancor prima della beatificazione.  Nella base, la scritta senensis populus argentea urna confessoris Bernardini pretiosa vestimenta recondit volavit ad celos xx maii MCCCCXLIIII (il popolo senese raccolse in questa urna d’argento le vesti di Bernardino suo confessore: salì in cielo il venti maggio 1444). Sulla sommità, le aggiunte degli anni 1682 e 1725 per mano dell’orafo Domenico Bonechi: un angelo regge un pastorale, un altro due mitrie: ricordano i vescovati di Siena, Ferrara e Urbino, offerti al Santo e da lui rifiutati. Al centro, reliquiario a forma di ciborio con volute, contenente le polveri dei precordi di San Bernardino; sopra, piccolo ma elaborato reliquiario per un dente, culminante nel simbolo francescano del braccio di Cristo incrociato con quello di Francesco. L’opera si presenta sorretta dall’apparato processionale in legno intagliato e dorato, realizzato su commissione pubblica dall’intagliatore Pietro Montini nel 1687.

Il Sepolcreto dei Petrucci

Uscendo dalla sagrestia, presso il vestibolo che dà accesso al presbiterio, una piccola apertura immette nella stretta scala di accesso alla parte sottostante del mausoleo pandolfiano, l’ambiente che costituiva il vero e proprio sepolcreto dei Petrucci. Si tratta di un ampio vano diviso in due navate da colonne in laterizi che portano volte a crociera, interamente dedicato alla sepoltura di Pandolfo Petrucci e della sua della discendenza (fino all’ottocento). Nella parete est (a sinistra per chi entri dalla scala) una porta conduce alla cripta (vedi sopra). Nella parete opposta, spicca nell’ambiente cimiteriale una grande tomba ad arca in travertino, con strutture architettoniche di stile classico ed elaborati intagli, costruita per Celia Petrucci, morta quindicenne nel 1558. L’opera è attribuita ad un artista che il Vasari cita nella vita di Baldassarre Peruzzi come suo “creato (discepolo) chiamato Cecco Sanese”, ossia Francesco da Siena, recentemente rivalutato nella cultura pittorica del cinquecento senese.


La Loggia di Pandolfo

Tornando alla crociera presso l’ingresso della sagrestia e prendendo la direzione opposta al vestibolo del presbiterio, si accede (tramite un portale con architrave in marmo recante lo stemma dei Petrucci da ambo i lati) ad un altro suggestivo ambiente creato dall’addizione cozzarelliana: si tratta del braccio nord del portico ideato dal Cozzarelli, l’unico a conservare, dopo le trasformazioni secentesche, la funzione di loggiato. L’eliminazione delle strutture murarie del braccio sud del portico ha trasformato questo braccio dell’antico quadrilatero in una vera e propria loggia, attualmente dotata di finestroni novecenteschi in vetro e ferro affacciati su un suggestivo panorama* della città. Immediatamente sotto la loggia, un piccolo chiostro con cisterna, ora aperto da un lato, che costituiva in origine la parte interna del chiostro cozzarelliano. Al termine della loggia, un'altra porta architravata con marmo recante lo stesso stemma dei Petrucci, segna la fine dell’aggiunta pandolfiana e dà accesso alle altre parti del vasto convento.


Il refettorio

Dal primo vestibolo si accede a destra alle parti attualmente abitate dai frati e, per le ripide scale che si aprono sulla destra del primo corridoio, alla biblioteca (vedi appendice) e alla sala delle riunioni. La porta a destra del vestibolo immette invece nel refettorio costruito nelle forme attuali negli anni 1696-1704. Si tratta di una vasta aula con volte a vela lunettata e ornamento a stucco ispirato a semplice ed elegante sobrietà, che esercita in tal senso una notevole impressione su chi vi entri.

 Sulla parete di fondo è stata sistemata nell’anno 2003, dopo il restauro, la grande tela (m. 2,05x7) dell’Ultima Cena del sacerdote senese Francesco Franci (si veda un suo affresco con san Romualdo a Camaldoli), datata 1710 nell’angolo inferiore a destra. Non è dato sapere da quanto tempo la tela si trovasse nel refettorio quando fu asportata nel 1810 al tempo della soppressione napoleonica, per essere restituita cinque anni dopo. Dal 1961, anno del restauro dell’ambiente, giaceva in attesa del restauro. Da notare la buona qualità della realizzazione (sia per la distribuzione degli apostoli sia per le scelte di colore nei panneggi) e l’inserimento della scena di genere in primo piano: il realismo quotidiano delle due bestie che si azzuffano e vengono scacciate e la suggestione popolare del diavolo che da sotto la tovaglia ammicca a Giuda.


I Chiostri

Oltre al chiostro rimanente sotto la loggia di Pandolfo, la sistemazione secentesca ne previde altri due, della cui funzione strutturale già abbiamo discorso. Il chiostro centrale ebbe l’attuale sistemazione negli anni 1683-1694. Vi si accede tornando alla porta d’ingresso del convento. Ha la forma di un ampio piazzale scoperto con pavimentazione in accoltellato di laterizi disposto a lisca e diviso in settori a ventaglio. Al centro, una cisterna di buona fattura risalente al 1722. Guardando dalla cisterna verso sud-est, si gode di una notevole vista sul fianco della chiesa, con scorcio del tiburio e campanile, che fa apprezzare ancora da un diverso punto di vista la sapiente concezione rinascimentale del monumento, col suo alternarsi di linee curve e rette. Elegante l’insieme delle lunghe pareti, scandite dai due ordini di finestroni, più tardorinascimentali che barocchi, rifiniti a laterizi (quelle inferiori) e con grossa bordatura in pietra e davanzale sorretto da mensole (quelle superiori).

Per accedere al terzo chiostro, occorre uscire dal convento e percorrere l’ampio piazzale davanti alla chiesa, entrando poi nella piccola porta che si apre al centro del grande muro che costeggia il piazzale. Si tratta di un ambiente cinquecentesco, come ricordato nella premessa storica, con zona verde al centro circondata sui quattro lati da un porticato sorretto da colonne in laterizi. Sopra le volte, finestre di fattura simile a quelle dell’ordine superiore del chiostro centrale. Gli ambienti del lato sud (attuale salone parrocchiale e teatrino) corrispondono all’antico refettorio.